Il mio nome è Nessuno

Questa storia, scritta dalla dottoressa Patrizia Corbo, cofondatrice e presidente del Piccolo Principe, ha segnato per sempre la sua idea di cura ed è stata di ispirazione per i progetti La Casa sull’Albero e Cittadella dei Ragazzi. Ne riportiamo di seguito un estratto.

“L’arrivo di Livio in Comunità è stato come uno tsunami che si abbatte su una tranquilla isola di vacanze. Ospitavamo ancora pochi bambini, c’era una sorta di aria di villeggiatura, la casa era stata appena aperta, i bambini in tutto quattro, si godevano la cameretta nuova, i giochi ancora nelle scatole, alcuni di loro non avevano mai avuto neppure un letto proprio. I tanti amici che avevano contribuito all’apertura della Comunità si prestavano a svolgere mille lavoretti, non avevano ancora il coraggio di avvicinarsi ai bambini. Avevamo spiegato loro che bisognava conquistare la loro fiducia con calma e rispetto.

I bambini avevano tutti storie dolorose, ma questa piccola famiglia accogliente li aveva illusi che il peggio era passato. Non avevano ancora incontrato Livio.

Livio era un bambino Rom di un’intelligenza raffinata e di una simpatia travolgente. Aveva otto anni, quando per la prima volta si è affacciato alla finestra della nostra cucina e ci ha sorriso; aveva un’esperienza di vita di un quarantenne, aveva vissuto in Romania con il padre sino a quattro anni, un padre maltrattante e abusante nei suoi confronti e nei confronti di sua sorella maggiore, ormai avviata alla prostituzione. La madre, venuta in Italia per scappare da un marito-padrone, si arrangiava svolgendo lavoretti vari e mai definitivamente identificati. Si presentava in visita al figlio di tanto in tanto, senza alcun rispetto delle regole imposte dal Tribunale per i Minorenni. 

Livio aveva vissuto gli ultimi quattro anni da fantasma, nessuno si accorgeva della sua presenza, nessuno gli chiedeva nulla, non frequentava la scuola, non aveva un pediatra, una casa, il permesso di soggiorno. Vagava per le strade di Milano con la mamma o da solo e nessuno, che lui ricordi, si è mai interessato a lui.

Quante volte in Metropolitana, o per strada ho visto questi bambini persi, naufraghi in un mondo che non li vuole, sporchi, smarriti e mi sono sempre chiesta la ragione per un abbandono sociale così evidente. Com’è possibile che nessuno pensi a loro. Quando li incontriamo spesso giriamo lo sguardo, giustifichiamo un delitto nascondendoci dietro le nostre facili considerazioni socioculturali. Pensiamo che la loro cultura così radicata nel loro DNA gli impedisca di avere una casa, una vita stanziale. In tanti anni di lavoro con i bambini devo ammettere di non aver mai incontrato un bambino che non voglia farsi proteggere dal freddo, dalla fame, dai pericoli. Ho incontrato bambini spaventati, confusi, persino malati di abbandono e di violenza, mai bambini che davanti ad una mano tesa scappano. Fingono di fuggire ma poi tornano se abbiamo il coraggio di aspettare.

Questo era il mondo di Livio. 

Lo vidi per la prima volta addormentato sul sedile posteriore dell’automobile dei carabinieri, abbandonato e stanco, come un vecchio maglione abbandonato sulla sedia, o una valigia svuotata alla fine di un viaggio. Solo il suo sguardo era vivo, carico di dolore e di paura, uno sguardo profondo di quelli che indagano tenendo a distanza. Livio senza parole chiedeva silenzio e rispetto della distanza. Una distanza per pensare, per difendersi, per conoscerci, con calma nel rispetto del tempo. Una distanza da abitare senza invadere lo spazio, quella distanza che la sua vita caotica non gli aveva mai donato. Livio solo con lo sguardo ha stabilito un patto, ha dettato le nostre regole, le norme di una nuova vita da attraversare da solo e a suo modo.

Ha vissuto dieci anni con noi, è stata una lunga, intensa, disperata lotta contro i suoi demoni e un destino segnato che sempre tornava a recuperarlo. Ogni volta che faceva qualcosa di bello per la legge del contrappasso faceva qualcosa di disdicevole. Ovunque andasse lasciava il segno, era brillante, seduttivo ma ladro, era simpatico, intelligente ma truffatore, era generoso ma minaccioso con i coetanei. 

Mi sono chiesta molte volte cosa avremmo potuto fare e non abbiamo fatto, ma a questo punto l’unica cosa certa è che Livio è tornato con la sua mamma e dopo una serie di furti è finito in galera.

L’ho soprannominato Nessuno perché non esisteva, non aveva carta d’ identità, né alcun documento che attestasse la sua presenza nel mondo, la scuola dopo una serie di reciproci fallimenti, non ce l’ha fatta più, troppo diverso dagli altri. 

Forse se gli avessimo dato una possibilità, un nome e una cittadinanza, forse anche Nessuno si sarebbe sentito Qualcuno e da Qualcuno ci si aspetta qualcosa. Cerco delle risposte da molto tempo e non mi rassegno all’idea che le cose vadano così. Penso spesso allo sguardo di Livio, a quella distanza che non abbiamo mai attraversato, a quella possibilità smarrita che pure è stata in alcuni tratti aperta, dinamica, precaria, fragile ma c’è stata.  Ogni tanto le esistenze perse aprono la porta sul mondo, bisogna cogliere quello spiraglio di luce e attraversarlo, altrimenti, per sempre ci sarà solo buio.”

Foto di Giovanni Gastel.